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Sarò strambo ma mi pare che i visitatori, mentre tornano alle loro automobili, mi osservino come se di colpo fosse riapparsa sulle mie spalle la giubba a strisce e io stessi camminando sulla ghiaia con gli zoccoli. Si tratta certo di un’idea bislacca: però è vero che a volte, in momenti particolari, si è capaci di emettere un fluido invisibile ma potente, che gli altri percepiscono come la vicinanza di un’atmosfera insolita, eccezionale, e ne vengono colpiti come un’imbarcazione da un’onda anomala.

Dannazione a tal punto avvinghiata alle nostre esistenze che ci vagavamo dentro come sonnambuli; e nello stesso modo in cui non si deve risvegliare un sonnambulo quando è lì lì per precipitare nel vuoto, così, nei rari momenti in cui coglievamo in noi la vibrazione di un’immagine del mondo dei vivi, ci ritraevamo in fretta da quella tentazione, prima di rischiare di perdere l’equilibrio. Perciò, una settimana dopo la visita di Jean, mentre mi trovavo in mezzo alla calca che ondeggiava amorfa in quella cassa chiusa che era la nostra baracca, non feci caso al capoblocco che scandiva un lungo numero in tedesco.

A ogni parola avrei timore di incappare in una nota stonata, perché della morte e dell’amore si può parlare soltanto con se stessi o con la persona amata, con la quale formiamo una cosa sola. Né la morte né l’amore tollerano la presenza di estranei. E quando il guardiano parla, nel suo ruolo di guida, a una comitiva che lo ascolta in silenzio, in verità sta parlando ad alta voce con i propri ricordi; il suo monologo è soltanto uno sfogo di immagini interiori, e non è che, dopo queste ripetute confessioni, si senta più soddisfatto o più calmo.